Se chiedi a un ucraino quali sono le particolarità della sua cucina nazionale ti nomina quasi sicuramente il boršč, i varenyky e il salo. Senza nulla togliere al valore del boršč, inserito con urgenza nel patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO dopo quattro mesi di bombardamenti russi, per un italiano non è propriamente qualcosa di unico, goloso e memorabile. È indubbiamente una zuppa molto buona, ma resta pur sempre una minestra, incubo dell’infanzia di molti, da pochi preferita a pastasciutta, lasagne e tortellini. Serpeggia in Italia una percezione spesso inconscia della minestra come cibo per malati e per anziani, anche se la nostra tradizione gastronomica vanta molte eccellenti varianti regionali, dalla ribollita toscana alla zuppa maritata napoletana. I varenyky, poi, sono per noi del tutto assimilabili agli svariati tipi di ravioli, tortelli e agnolotti nazionali. Difficile distinguere in maniera neta il salo ucraino dal lardo, prodotto diffuso nella nostra penisola con diverse modalità di conservazione e di stagionatura, dal celeberrimo lardo di Colonnata al valdostano lardo d’Arnad. Non immaginano, gli ucraini, che a rimanere impressi nella memoria di un italiano che abbia vissuto a lungo nel loro paese siano alcuni ingredienti che nella quotidianità culinaria patria di solito non compaiono. Per quanto mi riguarda, si tratta essenzialmente di due erbe, un prodotto caseario e un finto cereale: l’aneto e l’acetosa (krip e ščavel’), la panna acida (smetana) e il grano saraceno (hrečka). Sono comuni anche in altri paesi (non solo dell’est europeo), ma non in Italia. Li trovi, certo, se li cerchi con determinazione, ma poi scopri che non ti piacciono più, che hai altre alternative più familiari e più adatte a quello che cucini di solito. Finisci così per lasciarli chiusi nella stanza dei ricordi: immagini di colore, profumo e gusto che rievocate ti risucchiano per un attimo nel vortice del passato. Di farina di grano saraceno sono fatti i pizzoccheri della Valtellina, ma il grano saraceno in chicchi, tostato, in Ucraina si vende dappertutto e per molte famiglie fa ancora parte dell’alimentazione quotidiana, come da noi la pasta o il riso. Si consuma bollito in poca acqua, condito con un po’ di burro, servito da solo o con piatti di carne. L’acetosa (da non confondere con l’acetosella) è una pianta che forse in Italia conoscono solo pochi appassionati di botanica o di erboristeria. In Ucraina è l’ingrediente caratteristico del boršč verde, che qualcuno preferisce al più famoso boršč rosso. Nella ricetta che mi hanno insegnato a Odessa il brodo è di pollo, tacchino o vitello, mentre per il boršč rosso si preferisce il maiale o il manzo. La carne si fa bollire con un paio di foglie di alloro e qualche grano di pepe, poi si disossa, si taglia a pezzetti e si rimette nel brodo con patate tagliate a piccoli cubetti. Quando le patate sono morbide, si aggiunge un soffritto di cipolle e carote tritate e infine l’acetosa tagliata grossolanamente, un po’ di prezzemolo, foglie verdi di cipollotto, uovo crudo sbattuto e panna acida. Si decora poi ogni piatto con mezzo uovo sodo. Quando non si trova l’acetosa, per ottenere il caratteristico sapore acidulo si possono usare spinaci e succo di limone.
