Nei cinque anni trascorsi a Odessa ho goduto di un piacere forse per molti inconsueto: viaggiare in tram.
La rete tranviaria di Odessa, con quelle di Lisbona, Melbourne e Rio de Janeiro, è tra le più estese del mondo, ma il mio piacere non derivava tanto dalla sua funzionalità né dal fascino delle vetture, a volte d’epoca, dai colori vivaci, quanto dallo spettacolo di varia umanità che quotidianamente si offriva al passeggero.
Sui tram di Odessa il biglietto in genere si pagava al konduktor, un bigliettaio o, più spesso, una bigliettaia che dopo ogni fermata andava su e giù dicendo o gridando: «Za praiést, pažalusta! Za praiést» («Per la corsa, prego! Per la corsa!». La z nella traslitterazione del cirillico si legge come la s italiana di “rosa” e la ž più o meno come j nel francese je). Se necessario, sgomitava come un giocatore di rugby per farsi strada tra la ressa, mentre la gente si abbarbicava ai sostegni per non cadere. Quando non c’era il bigliettaio, il conducente avvisava della sua assenza con l’altoparlante e invitava i passeggeri a pagare a lui al momento della discesa. Se il tram era affollato, chi si trovava in fondo poteva scendere dalla porta posteriore e raggiungere esternamente quella anteriore, da cui il conducente, uscendo dall’abitacolo di guida, si sporgeva per dare il biglietto e prendere le sette grivne. Se qualcuno faceva la “lepre”, scendendo dalla porta posteriore e allontanandosi senza pagare, veniva apostrofato a gran voce dai passeggeri, che si sporgevano dai finestrini per insultarlo. Io una volta mi trovai fortunosamente nei panni di una “lepre”. Sulle prime non avevo capito che le urla provenienti dai finestrini e dalle porte aperte di quel tram, che aveva frenato bruscamente subito dopo essere ripartito dalla fermata, erano indirizzate a me. Quando me ne resi conto, capii immediatamente la situazione e giurai, in una specie di processo del popolo, che non ero scesa dal tram, ma solo per caso mi ero trovata lì proprio quando il tram si era fermato, mentre stavo andando a casa a piedi. Era evidente che non ero riuscita a convincere nessuno, ma il mio accento straniero e le mie difficoltà a esprimermi in russo, accentuate dalla situazione ansiogena, li fecero desistere; il conducente, scrollando il capo, rientrò nel suo abitacolo e ripartì.
E poi c’era la solidarietà: la giovane mamma con un bambino in braccio e uno per mano, che subito trovava chi spontaneamente si alzava per offrirle il posto a sedere; l’anziana con due bastoni che stentava a inerpicarsi sugli alti gradini e cercava con lo sguardo un uomo pronto a sorreggerla, certa che l’avrebbe aiutata senza bisogno di chiederlo.
Ma c’era anche il giudizio morale di una comunità vigile: l’uomo già ubriaco alle cinque di pomeriggio, che barcollava e sproloquiava, mentre una signora lo rimbrottava sdegnata ad alta voce.
Capitava non di rado che il tram fosse costretto a fermarsi perché un’auto era parcheggiata sulle rotaie. O la rimozione forzata non era prevista oppure non era applicata, fatto sta che le possibilità erano in genere due: o tutti scendevano per proseguire a piedi o con altri mezzi disponibili nelle vicinanze oppure un gruppo di passeggeri nerboruti rimuoveva l’auto a forza di braccia e il ram ripartiva.
Ricordo la piacevole emozione che provai quando per la prima volta un suonatore di fisarmonica salì sul tram ad allietare i passeggeri con la sua straordinaria bravura. Era un uomo dalla pelle scura, forse uno zingaro, forse no, e chiedeva un’offerta. Quando misi nella sua sporta venti grivne, la signora seduta di fianco a me mi guardò con aria di rimprovero: «È troppo!» Un’altra dal fondo del tram gridò all’artista di strada: «Vai a lavorare!»
Marzo 2025
